Dott.ssa angela de laurentiis, PhD. Nutrizionista specializzata in patologie Oncologiche e ricercatrice in oncologia sperimentale

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AZIONE IMMUNOMODULANTE DELLA LATTOFERRINA (proteina del LATTE)

Angela De Laurentiis • ott 23, 2020
Negli ultimi anni, sempre più pazienti entrano nel mio studio con la consapevolezza che il cibo stia contribuendo all'insorgenza delle loro patologie. Come conseguenza logica, sulla base di fonti volutamente generiche (riviste o internet), quasi tutti arrivano da me che già hanno eliminato alcuni alimenti dalla loro dieta giornaliera. Il primo alimento che subito viene incriminato dal 90% delle persone che ricevo, risulta sempre essere il LATTE. Purtroppo la credenza che questa bevanda sia dannosa, porta al risultato che sempre meno persone la beva e se lo fa è in quantità irrisorie e quasi con terrore. 
Scopo di questo articolo è far capire che se questa bevanda non è eliminata per ragioni di salute precise e reali, si rischia di perderne gli EFFETTI BENEFICI, tutt'altro che scontati 
Un esempio di sostanza presente nel latte, sicuramente più unica che rara come importanza, è la LATTOFERRINA. Studiata da oltre 50 anni viene citata in oltre 3000 articoli di letteratura scientifica, dove viene ampiamente dimostrato che possiede cruciali proprietà antinfiammatorie e immunomodulanti in grado di potenziare la risposta immunitaria dell'uomo contro batteri e virus (virus nudi o avvolti)
Questa abilità sembra dovuta alla capacità della lattoferrina di chelare (nascondere) gli ioni del Ferro presenti nel nostro organismo. Questo rende il Ferro, non disponibile per i microorganismi patogeni che ne hanno bisogno per entrare nelle nostre cellule e per duplicarsi e crescere a nostre spese. Tolto il ferro questi ospiti sgraditi non sono, quindi, più in grado di essere dannosi. Questa azione è verosimilmente la ragione per cui i nostri antenati attribuivano al latte potere calmante e curativo per bambini o adulti influenzati. 
Questa glicoproteina risulta altamente conservata tra speci diverse, la più alta omologia di sequenza è stata riconosciuta tra lattoferrina umana e bovina (circa 79%) ed è quindi questa a essere usata in studi in vitro e in vivo oltre ad essere suggerita come integratore in alcune patologie. A questo si somma l'osservazione che la lattoferrina alimentare e quella endogena (già presente nel nostro corpo), abbiano le stesse proprietà protettive e immunomodulanti. Questo fa si che questa proteina introdotta con l'alimentazione, possa già influenzare direttamente le cellule del sistema immunitario presenti nell'intestino, con conseguente risposta sistemica veloce.
Nel 2007 uno studio italiano aveva valutato la supplementazione orale di lattoferrina in bambini infetti da virus dell'immunodeficienza umana (HIV), accoppiato alla terapia antiretrovirale classica.
Una review del 2018 evidenzia prove che la lattoferrina possa ridurre significativamente l'incidenza di enterocolite necrotizzante e sepsi a esordio tardivo e diminuire il rischio di infezione acquisita in ospedale e mortalità correlata a infezioni nei neonati prematuri senza evidenti effetti avversi.
Più di 140 prove sono disponibili su trials.gov. ed è stato dimostrato un importante contributo della lattoferrina su anemia, infezioni batteriche e virali, sia comunitarie che nosocomiali (ospedaliere), infiammazioni e prevenzione della sepsi.
Non per ultimo, visto il periodo, sottolineo che nell’ambito delle ricerche messe in campo per prevenire e contrastare Sars-CoV-2, un team italiano ha postulato che questa proteina del latte, potrebbe svolgere un ruolo protettivo bloccando l'interazione precoce tra virus e cellula ospite. Inoltre, la capacità della lattoferrina di entrare nel nucleo può anche contrastare l'attivazione della tempesta di citochine, evitando così disturbi dell'omeostasi del ferro sistemica, polmonare o intestinale nonché esacerbazione della malattia.

Di conseguenza, se non avete patologie particolari per cui uno specialista vi ha detto espressamente di evitare il latte, bevetene e gustatene liberamente la bontà.
05 apr, 2024
Le spezie e le erbe aromatiche tipiche della dieta mediterranea hanno benefici significativi nel migliorare lo stato glicemico nel diabete di tipo 2. Non tutte, però: il palmares comprende zenzero, cannella e cumino nero, curcuma e zafferano. Il dato emerge da una review e metanalisi, pubblicata su Nutrients. Nell'analisi di 77 studi, 45, che hanno coinvolto 3.050 partecipanti, sono stati inclusi nella metanalisi e 32 nella revisione sistematica. I criteri di inclusione degli studi prevedevano pazienti adulti con diabete di tipo 2, con dati sulla glicemia a digiuno e/o emoglobina glicata e/o insulina e comprendevano qualsiasi integrazione con cumino nero, chiodi di garofano, prezzemolo, zafferano, timo, zenzero, pepe nero, rosmarino, curcumina, cannella, basilico e/o origano. Il numero di studi su chiodi di garofano, prezzemolo, timo, pepe nero, rosmarino, basilico o origano e la loro associazione con i fattori glicemici nei soggetti con diabete di tipo 2 era insufficiente, quindi l'analisi si è concentrata principalmente sui restanti cinque ingredienti: cannella, curcumina, zenzero, cumino nero, zafferano e rosmarino. Sono stati osservati miglioramenti nella glicemia a digiuno dei soggetti con diabete di tipo 2 con tutti e cinque gli ingredienti. Tuttavia, le diminuzioni più significative, tra 17 mg/dl e 27 mg/dl, si sono verificate dopo l'integrazione con cumino nero, seguito da cannella e zenzero. Solo lo zenzero e il cumino nero sono stati associati a un miglioramento significativo dell'emoglobina glicata e solo cannella e zenzero sono stati associati a una diminuzione significativa dei valori di insulina. Degli 11 studi che includevano la cannella nella metanalisi, sei hanno riportato differenze significative nella glicemia a digiuno, mentre quattro avevano differenze nell'emoglobina glicata dopo l'integrazione. Infine, lo zenzero è stato l'unico componente associato a una diminuzione significativa in ciascuno dei tre risultati esaminati relativi a glicemia a digiuno, emoglobina glicata e insulina. (E.T.)
02 apr, 2024
Ho trovato questo articolo molto utile. Aggiungerei soltanto che, di conseguenza, non solo il tipo di alimenti, ma la corretta forma in cui lo si assume, non è da sottovalutare. https://www.issalute.it/index.php/la-salute-dalla-a-alla-z-menu/m/metalli-pesanti-negli-alimenti?fbclid=IwAR3jDJmE2UT3zDNC0Rqt-8UeAHxtB-UEgy8QSStJGpDq_iiw2uK25m0hnUM_aem_AUHiqQz_roPYKrb_9d9DwPVfd8acu1p4ErVkMCB4uCVguAC7dysKDh7F0oabkYNO1nf7VlfQN_dmncjx8XpTnsN3
Autore: Angela De Laurentiis 10 mar, 2024
ltre 4 milioni di persone in Italia con problemi renali cronici, è urgente intervenire sugli stili di vita, in primis sulle abitudini alimentari, per migliorare la qualità di vita dei pazienti con malattia renale cronica (MRC), ritardando l’ingresso in dialisi o scongiurando il ricorso a trapianti. È l’appello che medici ed esperti rivolgono a pazienti, Istituzioni e personale sanitario in occasione della Giornata mondiale del rene che si celebra il 14 marzo. L’articolo completo su www.ansa.it
21 feb, 2024
Grazie a uno studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Torino e dell’IFOM, pubblicato sulla rivista scientifica internazionale Cell Reports Medicine, è stato scoperto che una particolare tossina batterica, chiamata colibactina e presente in alcuni tumori intestinali, è in grado di addestrare il cancro a resistere alle cure. Anziché concentrarsi solo sul tumore per predire la possibile risposta alla chemioterapia, i ricercatori hanno studiato ciò che lo circonda, tra cui l’insieme dei batteri che popolano l’intestino: il cosiddetto microbiota. «Non è stato facile – spiega Alberto Sogari, ricercatore sostenuto da AIRC presso il Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino e primo autore dell’articolo – perché questo cambio di approccio ha richiesto l’ideazione di nuovi protocolli sperimentali. Con l’aiuto dei microbiologi del gruppo del professor David Lembo, del Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche dell’Università di Torino, abbiamo coltivato in laboratorio cellule tumorali colorettali e batteri produttori di colibactina, simulando così quello che avviene nell’intestino. Abbiamo utilizzato sia linee cellulari sia i cosiddetti organoidi, ossia colture in tre dimensioni di cellule di pazienti con cui si cerca di approssimare la struttura tridimensionale dei tumori di origine. In questo modo abbiamo studiato l’impatto funzionale della colibactina sulle cellule, con tecnologie di sequenziamento e analisi bioinformatiche all’avanguardia. Abbiamo scoperto che la colibactina funziona come una sorta di “palestra per i tumori”: questa tossina allena infatti le cellule tumorali a sopportare un carico costante di mutazioni al DNA, abituandole. Così, quando si inizia il trattamento con un farmaco chemioterapico con un meccanismo simile molto usato in clinica, l’irinotecano, il tumore è già allenato. Avendo imparato a sopportare le mutazioni causate dalla colibactina, il cancro impara anche a tollerare il danno provocato dalla chemioterapia, diventando così resistente». -FNOB-
07 feb, 2024
Un nuovo studio italiano ha dimostrato l’efficacia di una terapia farmacologica nella cura della leucemia acuta linfoblastica Philadelphia positiva (Lal Ph+). Si tratta di due farmaci utilizzati in modo combinato che agiscono direttamente sul tumore, evitando l’uso di trattamenti chemioterapici o di altro tipo. La ricerca coordinata da Robin Foà della Sapienza Università di Roma è stata pubblicata sul Journal of Clinical Oncology. Il team ha osservato una percentuale molto alta di remissioni. Il tumore del sangue su cui il gruppo ha lavorato ha un’incidenza molto alta con l’avanzare dell’età e dopo i 50 anni può colpire un paziente su due. Ad oggi, l’unica terapia potenzialmente curativa, ma non sempre percorribile prima dell’introduzione degli inibitori delle tirosin-chinasi, era il trapianto di cellule staminali ematopoietiche. Cit.Anna Lavinia
05 feb, 2024
Roma, 30 gennaio 2024 (Agenbio) – È allarme disturbi alimentari in Italia. Ne soffrono più di 5 milioni di persone e la metà è sotto i 18 anni. La diffusione dei disturbi legati al comportamento alimentare (Dca) come anoressia, bulimia, disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo sono malattie molto rischiose che possono portare numerose e gravi conseguenze al nostro corpo. Nonostante le tante difficoltà, si può guarire se aiutati e curati nel modo corretto. Un dato da sottolineare è l’incremento dei casi del 40% durante il Covid-19, nel periodo che va dal 2020 al 2023. Secondo il Ministero della Salute, i disturbi alimentari sono una vera e propria epidemia che continua a crescere. Un’emergenza che porterà la sua scia anche nei prossimi 5-6 anni. tratto da "(Agenbio) Anna Lavinia FNOB"
Autore: Angela De Laurentiis 19 gen, 2024
“Un team di ricercatori dell’Università di Padova e dell’Istituto di Ricerca Pediatrica – Città della Speranza ha esposto ciclicamente cellule di medulloblastoma derivate dai pazienti alla stessa combinazione di farmaci comunemente utilizzata in clinica. Obiettivo, identificare i meccanismi molecolari che permettono ad alcune cellule tumorali di resistere alla chemioterapia. Grazie a questi esperimenti, gli studiosi hanno dimostrato che le cellule di medulloblastoma resistenti alla chemioterapia sono in grado di stravolgere completamente molteplici processi intracellulari. Le cellule tumorali contrastano così i danni provocati dai farmaci, si adattano ai trattamenti farmacologici e soddisfano le crescenti esigenze di nutrienti. Questa riconfigurazione metabolica può però trasformarsi nel tallone di Achille di queste cellule. I ricercatori coinvolti nello studio sono stati in grado di identificare tali vulnerabilità grazie a uno screening di più di 2000 farmaci, con il quale hanno dimostrato che i farmaci che agiscono sul metabolismo delle cellule tumorali, chiamati comunemente antimetaboliti, sono particolarmente attivi nel trattamento delle cellule resistenti. Questo risultato è particolarmente rilevante, perché molti dei farmaci identificati sono già approvati e attualmente impiegati nel trattamento di altre neoplasie, anche pediatriche, facilitando così il loro potenziale futuro impiego anche nel contesto del medulloblastoma. (Agenbio).” La chiave della lotta ai tumori non è solo trovare nuovi farmaci, ma utilizzare quelli gia noti in nuove combinazioni e impieghi. Ormai la terapia singola ha breve vita, poiché i tumori si adattano e riescono spesso a sopravvivere. Solo la combinazione di due o piu farmaci è la chiave vincente. Questo significa ricerca…entrare un giorno dall’oncologo e sentirsi dire…c’è un nuovo protocollo sperimentale. Non significa farmaci in sperimentazione, ma spesso sono le COMBINAZIONI in sperimentazione. “ da FNOD”
04 gen, 2024
Un nuovo passo in avanti per il trattamento del cancro al pancreas. Il gruppo di ricerca diretto da Davide Melisi, docente di oncologia medica dell'università di Verona e responsabile dell'unità di Terapie sperimentali dell'azienda ospedaliera universitaria di Verona, ha identificato un nuovo bersaglio terapeutico, l'autotaxina, quale possibile fattore responsabile della resistenza delle cellule tumorali ai trattamenti chemioterapici. I risultati dello studio sono stati pubblicati su Cancer Research. "Il cancro del pancreas è un tumore per il quale ancora non esistono trattamenti con farmaci a bersaglio molecolare o immunoterapici oltre ai classici chemioterapici - dichiara Melisi -. Dal 2011, quando il nostro gruppo di ricerca è nato all'università degli studi di Verona grazie a un finanziamento Start-Up Airc, abbiamo dimostrato, prima in laboratorio e poi in studi clinici, l'attività di una classe di farmaci, inibitori del cosiddetto Transforming growth factor beta o Tgfß. I dati raccolti con questo studio più recente aggiungono un anello importante al nostro filone di ricerca. Dimostrano infatti che il microambiente del tumore pancreatico, e in particolare i suoi fibroblasti, rispondono all'inibizione del Tgfß con la produzione di un nuovo fattore, l'autotaxina. Abbiamo dimostrato questo effetto sia in animali di laboratorio con cancro del pancreas, sia in pazienti trattati nell'ambito di sperimentazioni cliniche. L'impiego combinato di inibitori di Tgfß e del nuovo inibitore di autotaxina, il ioa289, rende le cellule tumorali molto più sensibili alla chemioterapia". "I risultati di questi studi - conclude - non rimangono in laboratorio, ma servono come razionale per nuovi studi clinici da offrire a chi purtroppo è colpito da queste patologie. Abbiamo, infatti, già in corso la sperimentazione clinica di fase 1 dell'inibitore di autotaxina, ioa289, con la chemioterapia in pazienti con nuova diagnosi di malattia avanzata. Inoltre a breve avremo i risultati preliminari di tossicità e attività di questa nuova combinazione terapeutica". - ANSA 3/1/24 -
20 dic, 2023
Gli scienziati del Dipartimento di eccellenza di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università di Torino, che lavorano al Molecular Biotechnology Center, hanno identificato il ruolo chiave di due proteine nella promozione della cachessia neoplastica e dell’atrofia muscolare. Le cellule che costituiscono i tessuti del nostro corpo rispondono a stimoli dell’ambiente circostante con flussi di proteine che si attivano e inattivano lungo specifiche vie di segnalazione cellulare. La ridotta attività di una di queste vie di segnalazione, chiamata BMP-Smad, induce una diminuzione della forza e della massa muscolare ed è uno dei meccanismi biologici noti alla base della cachessia neoplastica. I ricercatori dell’Università di Torino hanno aggiunto un tassello a questo quadro, identificando due proteine coinvolte nella riduzione di questa via di segnalazione: l’ormone eritroferrone (ERFE) e la proteina intracellulare FKBP12. Grazie a una stretta collaborazione con l’Università di Padova e l’Ospedale San Raffaele di Milano, gli scienziati hanno osservato l’aumento dell’ormone ERFE nei muscoli di pazienti oncologici. Inoltre, in modelli sperimentali di cachessia neoplastica hanno trovato che tale aumento è indotto da uno stato persistente di infiammazione. Una volta identificato ERFE come ulteriore inibitore della segnalazione del BMP-Smad, i ricercatori hanno valutato un possibile approccio terapeutico per riattivare questa via. Il gruppo ha in particolare studiato l’effetto della molecola FK506, che a basso dosaggio lega e rimuove la proteina FKBP12. Allentando il freno rappresentato dalla proteina FKBP12, la molecola FK506 riattiva la via del segnale del BMP-Smad nel muscolo. I risultati dello studio, sostenuto da Fondazione AIRC, sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Cell Reports Medicine. (Agenbio) Etr 11:00. “FNOB”
Autore: Angela De Laurentiis 13 dic, 2023
La vitamina B3, anche detta Niacina o PP, fa parte delle vitamine definite IDROSOLUBILI, ovvero vitamine solubili in acqua. Questa caratteristica le rende non accumulabili nell’organismo e devono quindi essere regolarmente assunte attraverso l’alimentazione. Gli alimenti che maggiormente contengono questa vitamina sono carni bianche, spinaci, arachidi, fegato di manzo, lievito di birra e alcuni pesci quali spada, tonno e salmone. E’ fondamentale per il corretto funzionamento energenitico delle cellule, infatti interviene nel proces-so di digestione degli alimenti. Inoltre è nota favorire la circolazione sanguigna, funge da protettivo per la pelle e svolge un ruolo fondamentale in relazione al funzionamento del sistema nervoso. La carenza di questa vitamina, è stata associata a disturbi digestivi e neurologici, depres-sione e mal di testa ricorrente, oltre a problemi di pelle. Normalmente però in una dieta equilibrata è facile raggiungere il fabbisogno necessario di 16mg ONCOLOGIA: In numerosi studi la sua integrazione è stata correlata ad una migliore ri-sposta alle terapie oncologiche in MELANOMA e numerosi tumori del tratto GASTRICO. Inoltre, la sua integrazione, migliora le neuropatie che sono un effetto collaterale di molti trattamenti chemioterapici.
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